Maria Rita Gismondo è la direttrice della Microbiologia Clinica, Virologia e Bio-emergenze dell’ospedale Sacco di Milano. È diventata nota in questi giorni anche per gli attacchi sui social da parte dell’immunologo Roberto Burioni, perché ridimensionava, almeno in parte, le paure sul contagio da Covid-19. Il 21 febbraio aveva detto: «Non voglio sminuire il coronavirus ma i problemi che porta rimangono appena superiori all’influenza stagionale».
COSA DICE ADESSO LA PROFESSORESSA GISMONDO?
Il Corriere dello Sport ha chiesto alla Gismondo se è rimasta nella sua posizione adesso che i numeri sono arrivati a 12.839 per i casi positivi, oltre a 1.016 morti. «Sì, non ho cambiato idea – ha risposto -. Anche perché non ho mai sottovalutato questo nuovo virus sconosciuto, ma non è certo la peste nera manzoniana. Non possiamo guardare i numeri del giorno e farne un’estrapolazione per fare una descrizione del fenomeno intero. Siamo liberi da un virus quando è trascorso il periodo massimo di quarantena, in questo caso 15 giorni, dall’ultimo caso positivo. Dobbiamo osservare questo lungo periodo e poi magari tirare un sospiro di sollievo».
NELLE MALATTIE INFETTIVE C’È DI PEGGIO
«A livello di malattie infettive c’è di peggio – ha affermato la professoressa Gismondo -. Sia in termini di diffusione sia in termini di letalità. Il concetto è che non possiamo gridare alla peste nera. Ma è più letale, dicono. Sì, ma sui casi confermati, che potrebbero essere molti di meno dei casi reali. Il 60-70% degli italiani potrebbe essere venuta a contatto con il virus e il 90% di questi senza sintomi. Possono essere stati positivi senza saperlo e senza sentire il bisogno di fare un tampone. Così potrebbero avere inconsapevolmente infettato altri».
INFLUENZE E POLMONITI PIÙ PERICOLOSE DEL COVID-19
«Non parliamo poi – ha insistito la Gismondo – delle influenze o delle polmoniti verificatesi mesi prima l’allerta di gennaio, oppure da febbraio in Italia, e curate senza nemmeno ipotizzare un nuovo virus. Quindi il numero di morti andrebbe valutato in base al numero di infettati reali. E anche i morti da coronavirus dovrebbero essere confermati dall’autopsia, come si fa in molti altri Paesi, Stati Uniti in testa, dove poi i decessi da coronavirus risultano più bassi di quelli italiani. Da noi sono collegati al Covid-19 perché risulta una positività al virus ma non è detto che poi sia il virus la causa, visto che di solito sono pazienti con altre gravi patologie».
I DECESSI NON SONO TUTTI COLLEGABILI AL COVID-19
In proposito la professoressa Gismondo ha spiegato: «Nei due mesi successivi al 20 febbraio abbiamo registrato circa 700 decessi collegati al Covid-19 ma in realtà solo in apparenza collegabili. Certo il virus potrebbe aggravare altre situazioni patologiche e noi dobbiamo bloccarlo comunque in modo da salvare i pazienti, però dobbiamo anche verificare con l’autopsia la vera causa della morte. Nel frattempo, in Italia si sono verificati in quattro mesi circa 8.000 decessi collegabili al virus influenzale. Ecco perché il paragone con l’influenza va fatto, come va fatto con la polmonite da pneumococco, quarta causa di morte al mondo negli over 65. E i mille nuovi casi di Hiv ogni anno in Italia, di cui nessuno parla. E l’Hiv è pandemia mai risolta. Abbiamo avuto anche un’influenza suina nel 2009, definita pandemia dall’Oms, che ha infettato milioni di persone e ne ha uccise 203mila. Fece meno rumore del Covid-19. E a proposito di capacità di contagio, ogni positivo al Covid-19 può infettare altre 2-3 persone, ma un infettato da morbillo, per esempio, ne infetta altre 18 di persone».
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