Stanotte ho fatto uno strano sogno che mi ha fatto cominciare in allegria la giornata: erano i primissimi anni “Cinquanta”, ero ragazzino e passavo giornate intere a giocare a pallone sul “Campo degli Americani”, una spianata in terra battuta, alle spalle delle Case Popolari, (dove abitavo) così larga, così bella, così invitante da sembrare un vero campo di calcio.
Giocavamo partite interminabili con i soldati anglo-americani, che sembravano impazzire per il gioco del calcio: la stessa atmosfera strapaesana, con il pubblico a bordo campo, le porte segnate solo dai pali senza la rete, niente bandierine del calcio d’angolo e niente arbitro. Ci arbitravamo da soli, noi giocatori e, tranne rarissime occasioni, tutto filava liscio e, alla fine (cioè quando calava fitto il buio della notte) vincitori e vinti ci abbracciavamo e, dimenticate tutte le pene inflitteci dalla guerra appena finita, tornavamo ad essere dei ragazzi felici.
Perché questo è il miracolo del gioco del calcio: inventarsi la vita ad ogni partita, bella o brutta che sia.
E questo Biancavilla-Palermo di poche ore fa di certo non è stata una bella partita ma noi l’abbiamo vinta e quindi siamo felici lo stesso: primo posto in classifica, sei di vantaggio sulle seconde, migliore attacco e migliore difesa.
E dire che… palla a centro, fuga da sinistra del terzino, cross, deviazione di Crivello e autogol: sono passati diciotto secondi e il Biancavilla è in vantaggio.
Per la verità io non ho visto nulla di tutto questo e il suo fulmineo svolgersi non c’entra affatto: non ho visto nulla perché la telecamera di ripresa era allo stesso livello del terreno di gioco. Era come vedersi la partita distesi sul’erba sintetica dello stadio: niente prospettiva e nessuna possibilità di calcolare distanze e posizioni in campo dei giocatori.
Prendere un gol così al primo respiro di partita e non vedere (quasi) nulla è uno choc che lascia tramortiti. Nello stesso istante del gol “annunciato” dal telecronista mi è mancato il respiro: un tifoso è abituato a soffrire per la sua squadra purché se ne renda conto.
E’ un nano secondo, alzo lo sguardo e vedo – questo sì, lo vedo e mi si attorcigliano le budella – gli spettatori a sbafo che si accapigliano per la felicità sui balconi della palazzina che spiove sul terreno di gioco. Perché così è sistemato lo stadio di Biancavilla: un campo stretto in erba sintetica che più verde non si può, con una tribunetta centrale da duecento posti o poco più. Il tifo, quello forte, lo fanno i portoghesi della palazzina su descritta e pochi altri sparsi lungo tutto l’asse rettangolare del campo.
E allora mi chiedo: se questo è uno stadio, sia pure solo da serie D? E se, alla mia veneranda età, doveva toccarmi di soffrire in un solo istante (una ventina di secondi, al massimo) quello che non avevo mai patito in sessant’anni e passa di tifo rosanero?
Uno choc, l’ho detto, che per fortuna – e la straordinaria forza d’animo che mister Pergolizzi ha trasmesso alla sua squadra – è svanito dopo solo due minuti: il tempo di pareggiare con Ricciardo e vincere la partita con Santana.
Che poi, i soliti “scienziati” del pallone si lamentino del gioco prodotto dalla squadra, del suo allenatore “che non capisce niente e non sa fare i cambi” non mi stupisce affatto: in una città come la nostra sovraffollata di allenatori in panciolle anzi da tastiera può venire a sedersi in panchina pure Ancelotti o Sarri e ne avrebbero anche per loro.
Forza Palermo, dunque, oggi, domani sempre.
E oggi, domani, sempre io sarò grato al trio Mirri, Di Piazza, Pergolizzi per aver restituito ai tifosi rosanero, ovunque si trovino, l’orgoglio della maglia, il piacere di andare allo Stadio, la gioia di una vittoria pulita, sul campo e nella vita.